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| Corrado Govoni (1884-1965)
NOTTE Alla memoria dell’amico indimenticabile Sergio Corazzini
Il diluvio azzurro delle campane è terminato. L’ultimo roseo del crepuscolo del suo pudore tardivo tinge i torbidi vetri. Il sole è caduto giù dalle vecchie mura come un capo ghigliottinato che inzacchera la città del suo sangue di martire. E come una marea sotterranea l’ineluttabile ombra sale sommergendo l’idilliaco bianco delle colombe tubanti sul tetto. Frullano intorno a le finestre i viscidi ombrelli dei pipistrelli piccoli funebri aeroplani, paracadute delle lucciole. Ecco che in fondo ad una via sorge la luna rossa e rotonda come l’insegna infuocata d’una bottega di cocomeri. Ella a poco a poco impallidisce e diventa sentimentale: illumina un banco di marmo in un giardino che aspetta inutilmente una coppia di amanti; entra nella mia stanza a cogliere in flagrante tristezza un mazzo di rose; va a fare la notturna toeletta davanti allo specchio. La sonnambula orchestra dei gatti elastici, sulle gronde, già incomincia ad accordare i suoi magri elettrici violini dalle corde fatte coi nervi dei più feroci suicidi; musica da trapezio, saccheggio d’una ferrareccia, danza del ventre, chirurgia infernale. I vostri poveri intestini sembrano nelle mani d’un cordaio ossesso che ve li torce e tira orribilmente vertiginosamente sull’orlo d’un burrone, le vostra ossa in possesso d’un diabolico arrotino che ve le aguzza senza compassione in una mola arroventata. L’idropico proletariato delle rane sembra assediare la città: rullano i suoi mille tamburi infaticabili. Poche nubi cenciose sporche boicottano la luna. Spuntano incerti ai canti delle vie i fanali, gialli crumiri; illuminano dentro un tabernacolo una Madonna di stucco coi suoi fiori di carta colorata in un barattolo da pomodoro; a una finestra senza vetriate un garofano rosso in un bianco pitale. Mio Dio, come è buio quaggiù in terra! Tutto buio e paura. Ma lassù splendon gli astri lieti e chiari. Per chi splendono tutte quelle stelle? Oh vivere la vita in rosso di Marte! Oh vivere la vita polare della Luna! Oh vivere la vita apira di quei soli abbacinanti! Oh vivere la vita eccentrica di Saturno! ch’è il bianco clown del firmamento che fa i suoi esercizi tra gli anelli! Tremola la via lattea, catena di montagne di diamanti, scala paradisiaca di mondi preziosi, immensa cintura che cinge i pianti d’ebano della notte. Oh! via sua una cometa automobile dal lungo strascico di madreperla di pavone avventizio, a precipizio lungo la via lattea a sollevare polvere di mondi… O astri imperscrutabili e lontani, mari glaciali di smeraldo vulcani di rubini cateratte d’opali, o stelle, qual è il vostro scopo? qual è la vostra vita? Siete voi la sublime prova d’una ricchezza sopranaturale, d’una gioia superterrestre? Od invece il prodotto d’una gran miseria, d’una tristezza infinita? Che importa se lucete tanto? Non risplendono forse anche le perle? Eppure sono il risultato d’una grave malattia delle ostriche! Non son gli uomini sulla terra come i vermi una necessità della carogna? Buio e silenzio in terra: solo là in una povera soffitta s’alza il patetico monologo d’usignolo s’un violino: tiremolla d’allegria e di tristezza, che fa pensare a un tisico bambino che un compagno crudele solletica sotto le ascelle. Le ombre lunghe allampanate si ritirano come le lumache nel loro guscio. Ed è l’alba: le rane battono in ritirata nel pantano. I galli vittoriosi cantano l’epinicio rivolti al loro maresciallo che purpureo s’alza all’orizzonte. Un fabbro celebra l’umano sacrificio del lavoro sull’altare cornuto dell’incudine. Spuntano bianchi e rosei i campanili, stazioni di telegrafia senza fili delle anime che riprendono le loro interrotte comunicazioni col cielo.
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