IL NANO E LA BAMBOLA
di Heinrich Böll
Come si può elaborare un giudizio sul valore di una raccolta di racconti? Essa è, spesso, come una scatola dal contenuto eterogeneo: nulla impedisce che vi si trovino, gli uni accanto agli altri in un insieme variegato, perle e zirconi; ci sono racconti che, più agili, trovano la via per il cuore grazie al loro carico di poesia e visionarietà; all'estremo opposto ci sono quelli che suscitano repulsione o forti emozioni negative. Infine, nel mezzo, trovano sempre spazio quei racconti la cui lettura ci è mediamente piaciuta (e che, forse, paradossalmente sono i peggiori perché, dal momento che è provato come l'emozione umana sia in grado di definire la salienza di una memoria, difficilmente li ricorderemo). L'impresa diventa ancora più ardua qualora manchi quel filo rosso che, attraversando tutti i racconti, fa di essi un tutto dotato di una certa organica compattezza.
Niente di nuovo, si potrebbe dire, né dal punto di vista dello stile né delle tematiche, in questo "Il nano e la bambola" (che colleziona i racconti scritti in un arco temporale di vent'anni, dal 1950 al '70); chi ha letto i grandissimi romanzi di Böll ("Foto di gruppo con signora" a cui sembra occhieggiare il racconto "Come nei romanzi d'appendice"; o "Opinioni di un clown") non avrà difficoltà a riconoscere lo scrittore familiare né quell'integerrima dignità, che fa di lui un arguto cronista post-bellico, a cui è cara sopra ogni cosa l'indagine del clima lasciato da quell'affare orrorifico che è la guerra. Il centro della sua narrazione non sono i campi di battaglia, il cuore dell'azione (se non nei termini di contesto incidentale, che si trova, come per caso, ad incrociare il cammino del tascapane "protagonista" delle "Avventure di un tascapane"), quanto piuttosto le città e l'umanità che le abita, quella stessa umanità che diviene prodotto della disperazione, che è stata facogitata e risputata dai luoghi dell'orrore. Egli si avvicina a questi uomini e a queste donne (e il punto di vista sembra richiamare "E non disse nemmeno una parola"), alle loro facce trasfigurate (rese ancora più grottesche dalla sfavillante luce dei neon o dal ingeneroso confronto con i visi falsamente felici che troneggiano sulle copertine delle riviste e sui cartelloni pubblicitari), alle loro facce di figli della guerra la quale, come uno spartiacque, ha diviso la loro vita, reso più dolce il ricordo di ciò che era venuto prima e annullato ogni possibilità di ciò che ancora deve essere. Egli si avvicina alle loro facce di tedeschi che, nel grigiore di una quotidianeità alienata, aspettano d'essere riscattati dall'infamia. Due di questi racconti si intitolano "Quando scoppiò la guerra" e "Quando la guerra finì" e ciò deve essere considerato paradigmatico; quello che è accaduto nel mezzo è stato già ampiamente narrato e non soltanto dai libri di storia. Böll (nato nel 1917) si accontenta di raccontare, senza inutili retoriche, ciò che ha visto; c'è abbastanza orrore nella solitudine di un uomo la cui moglie non parla più, in un pianoforte di cioccolato con i tasti di croccante e marzapane quale regalo di Natale senza più mistero né eccitazione, nel verde veleno delle calze di Elsa che ha smesso di ballare; nel viso sfigurato di Anna, nell'assurda abbondanza di ciò che, nella penuria di ogni altra cosa, risulta superfluo, di tante mollette da zucchero quando non c'è più amore.
E lungo questo flusso di storie, capace di restituire al lettore un'impressione viva di quale brutto affare sia la guerra, Böll ha cura di posizionare racconti pieni della sua amabile ed amara ironia (che, a me, suona simile a quella di Calvino).
"Il nano e la bambola", quindi, è una scatola: dentro l'autore ha messo perle e ha messo zirconi (che tali rimangono nonostante la pregevole fattura). Ma non manca neppure il filo che, come anima di una bizzarra collana, tiene insieme visionarietà e disperazione, ironia e surrealtà.
VOTO: 7,7