| Up in the air è fatto di piccole idee interessanti che si incastrano, è fatto di dialoghi amari, di scontri generazionali e di scontri intimi, è fatto di domande senza risposta. Partiamo dall'assunto di fondo, ovvero il singolare quanto crudele mestiere del protagonista: licenziare, anzi, congedare il personale in esubero; la meccanicità con qui la procedura viene effettuata, e poi insegnata alle nuove leve (Nathalie, alias Anna Kendrick), si colloca su un piano di crudo cinismo, senza mai assumere un vero e proprio taglio moralistico. Meccanico è il lavoro, meccanica la vita, meccanico il modo in cui si prepara il proprio trolley, liberandosi dai fardelli inutili; ma qualcuno può forse dire se questo sia giusto o sbagliato? Bingham vive tra le nuvole e in Hotel di lusso per più di 320 giorni l'anno, non ha legami, ha una casa inutile, una famiglia altrettanto inutile, adora il sushi scadente e l'atmosfera malinconico/euforica degli aeroporti, e piomba negli angoli più remoti degli States coi suoi "pacchetti" per devastare la vita di persone che non vedrà mai più. Ma cosa c'è, in alternativa? La seconda parte del film, appunto, ci mostra un'altra prospettiva esistenziale, descritta ancora cinicamente dal novello sposo Jim, una vita fatta di matrimonio, mutuoper la casa, partite di football la domenica, figli da portare a scuola, stipendi che non bastano nemmeno per fare un viaggio, tant'è che si ricorre a ridicoli stratagemmi per sognare di aver girato il mondo. La seconda parte è anche quella di un Bingham che, per un attimo, a metà fra la contingenza e la convinzione (i cambiamenti decisi dal datore di lavoro e l'infatuazione per Alex) pensa a come sarebbe cambiare, diventare "normale", sperimentare la sedentarietà che è propria dell'essere umano, abbattere la solitudine travestita da autodeterminismo; e cosa trova? La delusione, il rimpianto, la dimostrazione che chi una casa ce l'ha, come Alex appunto, cerca momenti di evasione. Non sappiamo cosa è giusto e cosa no, ma il film arriva a conclusione così, senza picchi, procede liscio, amaro e divertente come gli stereotipi (saranno affidabili? Gli orientali sono più veloci al check-in e i trentenni sono falliti disincantati che sacrificano qualsiasi sogno per "accontentarsi"?). Reitman confeziona un film godibile, sarcastico, pungente, malinconico, ricco di belle inquadrature, di nuvole bianche e squallidi uffici di provincia, di ritratti "americani" (il matrimonio della sorella, le conferenze motivazionali), e di attori bravissimi, in primis George Clooney, la cui ottima interpretazione giustifica la corsa agli Oscar.
Voto: 7
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