IL GIORNO DEI TRIFIDI -
John Wyndham1952
Classico della fantascienza molto ancorato all’epoca in cui fu scritto, gli anni 50 trasudano da ogni capitolo. L’incipit è azzeccato: dalla cecità del protagonista e quindi dal mondo esperito solo per rumori e odori, alla cecità dell’umanità intera. Alcune parti sono davvero pregevoli: molti squarci della desolazione e della violenza dei ciechi, molte scene riservate alla solitudine della morte.
La trama ha un che di classico, così come è costruita intorno ad un protagonista che incarna l’uomo medio e che, nel procedere della storia, ha una consapevolezza della reale situazione maggiore rispetto agli altri che, ovviamente, non gli credono; una protagonista femminile che assolve il ruolo necessario per l’inevitabile storia d’amore, con consenguente tensione per la salvezza della stessa; l’umanità privata della civiltà e delle sue comodità, insomma naufraghi con poche risorse che devono reimparare l’abc della vita che con la specializzazione dei compiti e del lavoro ha in fondo perduto, insomma la visione dell’apocalisse con i suoi sopravvissuti.
Come ripopolare la terra in preda alla sua autodistruzione? Selezionando i sani, coloro che ci vedeno, destinando le donne alla procreazione, forzata.
In tutto il libro aleggia la guerra fredda, il problema della ricerca scientifica che sfugge di mano, il problema della speculazione finanziaria che piega gli individui alla continua ricerca del guadagno economico.
Certo la creazione dei Trifidi è interessante, nulla di alieno, solo il frutto di esperimenti di laboratorio, ma sono in fondo piante che vivono seguendo il loro istinto, hanno una base di logica, ma molto elementare, sono insieme innocui e terribili, incarnano la doppiezza umana.
Ed anche l’evento apocalittico, che all’inizio del libro sembra ricollegarsi alla natura dei trifidi, in verità sono frutto dell’icapacità dell’uomo di gestire lo sviluppo tecnologico e la forsennata corsa agli armamenti.
Come in tutte le storie in cui c’è da scoprire cosa ha causato cosa, poi la soluzione si rivela un tantinello deludente. Rimane il lungo dibattere di come fare a salvare la razza umana in un mondo ormai ostile, cosa salvare di essa: c’è la tesi del salvare tutti, ciechi e non, malati e non; c’è la tesi dell’abbandono di tutti per privilegiare i soli capaci; c’è la tesi della selezione accurata degli individui (tipo comunque servirsi dei nati ciechi che già sanno vivere con la loro disabilità); c’è soprattutto il dibattere dell’organizzazione della nuova società sempre in bilico fra dispotismo e anarchia democratica, un dibattere che rivela tutte le difficoltà di autoorganizzazione, tutti gli inciampi del costruire regole. E qui la scelta del protagonista, che resiste per lungo tempo come nucleo parafamigliare (lui, lei una bimba, una coppia di ciechi,) rivela un pochino quell’idea della famiglia come modello irrinunciabile alla socialità molto caro negli anni 50 (e agli americani di tutti i tempi). Non molto approfondita mi sembra la tematica della donna come “fattrice” di altre persone: per la salvezza della specie si deve/si può sacrificare l’individuo e ridurre la donna alla sua peculiarità biologica?
Edited by tiresia5 - 1/9/2010, 18:10