OLTRE LA SOGLIA, Arthur Machen

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Baba1989
view post Posted on 2/11/2010, 13:43




Oltre la soglia - Arthur Machen

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Est enim magnum chaos.

Arthur Llewellyn Jones nasce a Caerleon-on-Husk, in Galles, nel 1863, ultimo d'una famiglia di eruditi ed ecclesiastici; educato a Hereford, dimostra ben presto le sue doti e si trasferisce a Londra, dove presegue i suoi studi coltivando un forte amore per l'antichità ed il mistero. Cedendo tuttavia alle difficoltà economiche che gli impedirono l'accesso all'Università, Arthur, che nel frattempo ha adottato lo pseudonimo di Machen, inizia a lavorare come giornalista, sfruttando la sua abilità nella scrittura. Prosegue intanto nel tempo libero la sua attività di romanziere.

La storia di Arthur Machen potrebbe finire qui. La fama di cui gode attualmente questo scrittore, infatti, equivale a quella di un qualsiasi prosatore della domenica.
Purtroppo non ci si rende conto che il suo nome dovrebbe comparire accanto a quello di Edgar Allan Poe, Lord Dunsany, Algernon Blackwood, Howard Phillips Lovecraft.
La Letteratura orrorifica esiste, e sopravvive, grazie a loro.
Ed auguro di uscire dall'ignoranza a chi dice che la Letteratura dell'Orrore ha avuto una svolta grazie ad una certa Stephenie Meyer.


"Oltre la soglia" è un delizioso volumetto di appena 112 pagine edito dalla Tranchida nel 1993 (santo subito il signor Giovanni Tranchida per l'impeccabile lavoro).
Contiene nove piccoli racconti, preceduti da una breve introduzione di Franco Basso.
Insieme, questi racconti rappresentano la summa dell'orrore macheniano, un contributo che ci volle consegnare per aiutarci a comprendere quell'impenetrabile mistero che lo opprimeva da sempre, il mistero dell'oltre.


Ne "L'albero della vita", il primo racconto della raccolta, ritroviamo intatto il tema della pazzia, tanto fertile nella Letteratura di sempre, dalla piattaforma tragica greca, a Shakespeare, a Calderón de la Barca, fino a Dostoevskij . La pazzia come evasione della mente, come lente kantiana attraverso cui comprendere l'esistenza, come finestra sulla vera vita, scevra da ogni prestruttura culturale, morale, etica.
La follia del protagonista, Teilo Morgan, equivale ad una sana, innocua, sensuale mania d'onnipotenza: il mito della creazione a misura d'uomo si ripresenta nel parto di un microcosmo strutturato, talmente composito da produrre anche i ricordi. In questo senso, l'Abbazia di Llantrisant è l'antenato illustre di una qualsiasi Shutter Island.
Vedo Teilo Morgan un po' in parallelo con l'Adam di M. P. Shiel: il primo non ha nulla e crea, per sè stesso e nessun'altro, un mondo; il secondo ha tutto e lo distrugge, sempre per sè stesso. Sono entrambi percorsi di autoformazione che si compiono attraverso gli infiniti strumenti del delirio.

Si prosegue questo viaggio nella mitopoiesi dell'orrore con "I turaniani", brevissimo e incredibilmente suggestivo racconto in cui una giovane fanciulla, Mary, si addentra nelle verdi, rigogliose profondità di un bosco; si tratta di un must macheniano, una situazione narrativa molto frequente nella sua produzione, dal momento che il bosco, lussureggiante, nascosto, proibito, pericoloso, affascinante, raccoglie attorno a sè una sorta di mitologia fantastica, come sede di antichi rituali, come luogo di perdizione lontano dalla civiltà, come punto di contatto col divino, l'intangibile, la Natura; si vedano a questo proposito "Il popolo bianco", in cui veniamo a contatto con creature meravigliose e terrificanti, il Piccolo Popolo, portatrici di vizi e perversioni, o "La polvere bianca", in cui la regressione protoplasmica del protagonista, il suo ritorno alla bestialità, a massa corrotta e putrescente, è la conseguenza di quei riti orgiastici, demoniaci, apostatici meglio conosciuti con il nome di Sabba, e che si svolgevano proprio nei recessi del bosco. E così altri racconti, come "I bimbi dello stagno", "La storia del sigillo nero", trovano in qualche punto della storia una giusta collocazione nelle sinuose colline inglesi.
Il retroterra culturale d'impronta celtica di Machen in questo senso è prepotente, poichè egli si sentiva profondamente legato alla sua terra, il Gwent, sede di antiche leggende arturiane e di primitive scienze occulte.

"Il roseto", anche questo molto breve ma incantevole e quasi fiabesco, spia l'estasi conoscitiva di una fanciulla divinizzata nell'attesa del suo amato, che pare pura essenza più che materia fisica, con il quale potrà raggiungere la rinascita e l'appagamento spirituale, dopo una prima fase di perdita, e annichilimento (come la rosa, che si apre alla luce proprio in punto di morte).
Colgo lo spunto di questo racconto per far presente che in Machen non troviamo mai brandelli di filosofia spicciola: il suo ruolo di mistico e visionario, oltre che di semplice scrittore, gli consente di uscire dalle tradizionali pareti del Fantastico (supposto che ve ne siano) per sondare il grande enigma dell'esistenza umana, la cui percezione genuina è celata da una pesante patina che ci acceca, cioè il mondo esterno. Ma non si avverte mai una sua presunzione, poichè egli è il primo a non sapere, a non capire, a non riuscire, e scrive per affascinare, per far sorgere delle domande, lui che non possiede le risposte ma le cerca.
La sua adesione alla società iniziatica nota come Golden Dawn lo influenzò indubbiamente, questa setta (mi si conceda di definirla in tal senso) praticava una forma teurgica molto particolare e certamente trovava terreno fertile in cui crescere nel senso dell'occulto e del magico che Machen aveva coltivato sin da giovane. Non solo Machen, ma Bram Stoker, Algernon Blackwood, Lord Dunsany, J. W. Brodie-Innes, Sax Rohmer, W. B. Yeats, e tanti altri, aderirono all'ordine.
Machen decise di uscirne solo dopo aver sperimentato le tendenze gerarchizzanti di Aleister Crowley, tra l'altro considerato da alcuni il portatore di una sfaccettatura satanista all'interno della Golden Dawn. A questa necessità di cambiamento seguirà una fase di riscoperta della religione cattolica da parte della scrittore, e di una nuova spiritualità.

Una solenne pietra grigia, un antico immemorabile rito, una giovane fanciulla che si vergogna per aver assistito a qualcosa che mai avrebbe immaginato, la stessa giovane fanciulla che ricorda il colore rosso, denso sulla pietra e i gigli bianchi posati con devozione, queste sono le immagini suggerite dal quarto racconto, "La cerimonia".
Nell'introduzione, Franco Basso sottolinea la vicinanza tra la suddetta vicenda e un classico rituale celtico basato sulla convinzione che gli alberi, come grandi monoliti testimoni dello scorrere dei secoli, fossero incarnazione degli antenati morti, e rappresentassero tutte le forze della Natura.
La possenza, la forza, la maestosità degli alberi ed il timore reverenziale che incutevano a questi popoli, mi ha ricordato "I salici" di Blackwood.

Se pensavate che Dan Brown fosse stato il primo autore ad utilizzare in un suo scritto il giochetto di parole Saint Graal>Saint Greal>Sangreal>Sang Real, cioè "sangue reale", vi sbagliavate. Questo presupposto sta alla base de "Il rifugio dei soldati", uno dei racconti che seguì quell'esplosione di successo che fu "Gli Arcieri", pubblicato il 29 settembre 1914 per l'"Evening News", in cui si narrava l'intervento, poi creduto reale dai lettori, degli Arcieri di Azincourt guidati da San Giorgio in soccorso agli inglesi assediati a Mons, durante la Prima Guerra Mondiale.
Qui un angelo, vestito d'una sfolgorante armatura a guisa di San Michele, invita il soldato a bere da una coppa traboccante il Sangue di Cristo, per passare ad uno stato di assoluta beatitudine.

"Erano tutti vestiti di bianco, ma alcuni di essi avevano strani segni sul corpo che, immaginai, dovevano avere un significato simbolico in quel frammento di sacra rappresentazione tramandata dalla tradizione a cui stavo assistendo. Molti portavano sul capo ghirlande di alghe marine ancora gocciolanti; una di loro esibiva una finta cicatrice sulla gola; un ragazzino mingherlino manteneva aperta la sua tunica bianca e mostrava una spaventosa ferita all'altezza del cuore, da cui pareva fluire persino il sangue; un altro bambino camminava con le braccia tese e spalancate e i palmi sembravano laceri e sanguinanti, come se fossero stati trafitti. Una delle bambine portava in braccio un neonato ed anche il suo visino pareva ferito.
La processione mi oltrepassò.. "
Sono "I bambini felici", sesto racconto, i bambini di Banwick, protagonisti di una lunga processione preceduta dalla Messa dei Santissimi Innocenti.
Definito sopra dallo stesso Machen come un frammento di sacra rappresentazione, è in effetti un'immagine più che un racconto, un'icona che prende colore e forma man mano che l'autore la descrive. Finchè lo smarrimento del lettore non diviene similare a quello del protagonista.

Un lungo flashback fino ad un'inquietante verità, forse prevedibile, ma comunque disarmante alla luce del racconto; è il percorso di "Una stanza accogliente", in cui il protagonista ripercorre i suoi ricordi quando ormai è troppo tardi, trovando però nel disperato stato in cui versa la consolazione di aver sofferto ancor di più in passato, e raggiungendo una quasi incomprensibile serenità.
Senza smarrirsi in inutili riflessioni morali sulla pena dei condannati, evitando dietrologie di sorta, si riesce a cogliere tutto il senso dell'angoscia, della speranza, dell'attesa, della rassegnazione.
Questo racconto ha un sapore amaro che ricorda Poe, nel modo in cui ti spiazza e ti soffoca.

Forse perchè accusato, o sbeffeggiato, o messo in ridicolo dai contemporanei, o forse per un suo personale scrupolo di uomo e di scrittore, Machen introduce il bel racconto "Il tamburo di Drake" con una premessa.
Egli afferma che nei sogni, anche ad occhi aperti, siamo per pochi istanti capaci di guardare oltre. Quei pochi secondi rappresentano l'unica nostra possibilità di percepire il senso del mondo autentico. Ma sono attimi fuggenti, che la nostra mente non riesce a catturare, di cui non serbiamo ricordo, come se fossero segreti inviolabili che debbono rimanere tali.
Considera quindi assurde le storie riguardanti spiriti dei morti che comunicano con i vivi, dal momento che è tanto difficile per chiunque di noi riuscire a interpretare e conservare quel senso autentico della vita: talmente difficile che appare improbabile possano invece riuscirvi coloro i quali hanno "oltrepassato i bastioni fiammeggianti del mondo".
La storia del tamburo di Drake può apparire invece verosimile, poichè il modo attraverso cui il famoso capitano, defunto, comunica con il Regno dei vivi non è fatto di segni tangibili, ma di sensibilità: Machen racconta di una nave inglese salvata dalla disfatta poichè avvertita dell'arrivo dei Tedeschi da un rumore, prima incomprensibile, poi evidente, un tamburo, un segnale, una musica dall'Oltre.
Per citare la conclusione del racconto, che probabilmente corrispondeva all'opinione dell'autore, può essere andata così. Può.
Esula dall'ampia sfera dell'intelligibile..

Sull'ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, preferisco non dire nulla. Giusta conclusione di questo cammino narrativo sul soprannaturale, rappresenta nella sola lettura un'ottima esegesi dell'opera tutta, raccogliendo quel sentimento di prodigiosa, mostruosa inadeguatezza che fa parte dell'estenuante quotidiano umano.


Forse in questa raccolta non ritroviamo la catabasi de "I tre impostori"; forse nemmeno lo spaventoso abominio di "The great God Pan", l'esperimento di una scienza ad ampio respiro che tange i confini dell'ignoto, portando non innovazione, bensì regressione, ritorno alla bestia. A ben guardare non si sente nemmeno quel senso di agonia, di frustrazione, di tormento, che risulta invece essere l'imperativo categorico di un racconto come "Il terrore", dove la rivolta degli animali diviene il culmine dell'innaturale (brano da cui, pare, Hitchcock trasse spunto per il suo celebre "Gli uccelli"). E l'erudizione lanciata a briglia sciolta in quel trattato di "fisiologia londinese" conosciuto come "L'avventura londinese o l'arte del vagabondaggio", qui viene somministrata in pillole.
Ma la paura è presente, in ognuno di questi nove piccoli capolavori. Una paura mai fine a sè stessa, una paura che non è punto d'arrivo ma di partenza, un mezzo per scandagliare le pieghe dell'incubo. Lovecraft, nella sua stupefacente opera "Supernatural Horror in Literature", lodava Machen, e certamente gli augurava grandi fortune e riconoscimenti per il suo straordinario talento. E come lui tanti artisti e letterati riconoscevano i suoi pregi, furono loro, i suoi unici veri ammiratori e amici, a salvarlo dalle condizioni disastrose in cui Machen si trovava da anziano. La fitta corrispondenza con Paul Jean Toulet testimonia quanti meriti venissero riconosciuti a questo autore negli ambienti culturali del suo tempo. Meriti che invece, oggi, passano inosservati, dimenticati, riposti nella vecchia, polverosa soffitta che ospita tanti grandi della Letteratura Orrorifica, un triste destino a cui solo pochi fortunati sono scampati.
La prosa di Arthur Machen non ha eguali nel suo campo, può non godere della stessa inventiva di Lovecraft, della stessa ecletticità di Poe, della stessa tensione di Hodgson, ma ha un segreto che la rende terribilmente affascinante: non è mai esplicita. Lo stile è severo, elegante, levigato, poetico, e i sentimenti propri del terrore non sono mai del tutto giustificati, ma divengono piuttosto naturale conseguenza di situazioni suggerite, sussurate al lettore, talmente spaventevoli da non poter esser palesate.
Così aberranti da condurre oltre.
Oltre la soglia.
"Est enim magnum chaos".

Voto: 8-

Edited by Baba1989 - 2/11/2010, 20:03
 
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view post Posted on 2/11/2010, 19:39
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Sapiente Malizioso
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Bellissimo commento.. :D In più hai messo molti dati sullo scrittore e riferimenti ad altri suoi "stimati" colleghi! Recensione che può far conoscere un pò dell'autore, ingiustamente misconosciuto.. :D
Aggiungo solamente che la frangia della Golden Dawn cui apparteneva Machen non aveva nulla della setta; come hai giustamente scritto dopo, assume questi contorni quando si spacca in due e Crowley da ad una delle partifcelle quella direzione (Machen qui uscirà di scena, benchè fosse nella particella "buona" D )
 
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