PATRIMONIOAutore: Philip Roth
Numero di pagine: 187
Editore: Einaudi“Il sogno mi diceva che, se non nei miei libri o nella mia vita, almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia.
Non devi dimenticare nulla.”
Non ho mai letto nulla di Roth.
Anzi, a essere sincera posso affermare di averne quasi ignorato l’esistenza fino a qualche giorno fa(conosco molto bene invece il suo omonimo Joseph ma non lui).
Dopo un’attenta lettura posso affermare con certezza che io e Roth non abbiamo nulla in comune, se non la stessa tragica esperienza che ci unisce, l’aver visto nostro padre spegnersi lentamente a causa di una delle malattie più infide e bastarde che esista, il cancro.
Nessuno t’insegna cosa fare quando scopri all’improvviso che una persona a te molto cara si è ammalata di cancro.
Percepisci dei segnali, noti dei cambiamenti ma non gli dai importanza, “sono cose di poco conto” ti ripeti e invece ti ritrovi ad affrontare uno dei drammi più terribili che un essere umano possa affrontare.
Quando qualcuno dice che un libro non è per tutti, sembra quasi che uno voglia fare della presunzione inutile, ma mai come in questo caso espressione fu più giusta, questo romanzo lo può capire solo chi ha vissuto quest’esperienza, così come queste mie parole.
Questo libro è la sincera e commovente testimonianza della lunga e lenta malattia del padre che a ottantasei anni si ritrova a combattere ostinatamente contro una grave forma di tumore al cervello.
Il padre di Roth come mio padre, solo che lui di anni ne aveva ventitré in meno.
E come suo figlio Philip c’ero io, insieme a mia madre, ad assisterlo nella sua lunga e lenta agonia.
Una storia crudele quella di Roth come la mia, che giorno dopo giorno vede il suo genitore, quel genitore tenace, combattivo, possessore di quella forza che mai avresti pensato che qualcosa potesse scalfirla, lottare contro un male che lo divora giorno dopo giorno, mese dopo mese.
Pieno di rabbia, di impotenza, di amore, di ansia, di terrore, Philip accompagna il padre nel suo lungo calvario, come ho fatto io con il mio e so quanto si soffre, so cosa significa vederlo stare male e non poter fare niente per essergli di conforto, so cosa significa lasciarlo in silenzio perché non vuole avere nessuno accanto, so cosa significa vedere la sofferenza nei suoi occhi…purtroppo non ci si abitua mai al dolore durante alla malattia, né tantomeno dopo.
La cosa peggiore è il senso d’impotenza nel non poter far niente, nel non poter fermare il tempo e impedire che la persona malata si spenga per sempre.
La malattia uccide il malato e svuota completamente chi gli è accanto.
C’è tanta sofferenza nelle parole di Roth, la sofferenza di chi sa che la morte è inevitabile e a volte prega anche affinché arrivi presto per alleviare tutto quel dolore, la sofferenza di chi respira ogni giorno l’aria della morte, la sofferenza di chi sa che ormai non c’è più speranza, che ci si deve solo rassegnare, la sofferenza di chi vive nella disperazione e sa che niente può dargli sollievo, la sofferenza di chi può soltanto rimanere in silenzio e vivere il suo dolore e cercare di sorridergli per chi gli è accanto.
Un lungo ed estenuante viaggio tra medici(molto spesso presuntuosi e poco competenti), esami clinici vari( molto spesso inutili e che uccidono il malato ancor prima della malattia), la paura di quando ti alzi al mattino e pensi dentro di sé: “oggi potrebbe essere l’ultimo”, la terribile, dolorosa e inevitabile separazione finale…come ha scritto giustamente qualcuno questo libro è un fiume in piena dal quale è difficile non rimanere travolti.
L’unica consolazione per Roth è quella di sapere che suo padre se n’è andato senza rimpianti, che ha vissuto la vita che desiderava, che ha costruito tutto ciò che c’era da costruire, che in parte è stato felice…è la sua unica consolazione questa, così come la mia e alla fine, come lui, non ho potuto fare altro che lasciarlo andare, è stato il mio e il suo più grande atto d’amore.
Avrei voluto fare molto di più, Dio solo lo sa e spero che adesso lo sappia anche lui.
E’ vero, chi è in salute odia la propria vita, la ritiene vuota, inutile, si lascia prendere dagli affanni della quotidianità, si sente smarrito davanti alle prime difficoltà, chi sta male invece fa di tutto per combattere, per non farsi sopraffare dalla malattia e questa è una lezione che un po’ tutti dovremmo imparare.
Un bellissimo messaggio d’amore che mi sento di dedicare a coloro che si trovano o si sono trovati nella medesima situazione, in queste pagine troverete senz’altro la consolazione e la forza per continuare ad andare avanti nonostante tutto.
E lo dedico a mio padre, che mi ha insegnato la cosa più importante di questo mondo, amare.
“Dopodiché, non potei fare altro che seguire la lettiga fino alla stanza dove lo collocarono e sedermi al suo capezzale. Morire è un lavoro duro e lui era una gran lavoratore. Morire è orribile e mio padre stava morendo. Gli tenni la mano, che almeno sembrava ancora la sua mano; gli accarezzai la fronte, che almeno sembrava ancora la sua fronte; e gli dissi cose di ogni genere che non era più in grado di sentire. Per fortuna, di ciò che gli dissi quel mattino non c'era nulla che non sapesse già.” Voto: non mi sento di dare nessuna votazione, scusatemi.